
Pakistan. In seguito alla morte del padre, la famiglia di Irfan vive in condizioni di estrema indigenza. Per garantire al figlio istruzione e cibo, la madre decide perciò di mandarlo in una scuola coranica. Inizia così per il ragazzo la dura esperienza nella madrasa, dove le giornate sono scandite dallo studio ossessivo del Corano e dall’osservazione di una rigida disciplina. L’indottrinamento che viene impartito agli alunni dallo spietato maestro Jabbar non ammette ribellioni o disobbedienza, e Irfan lo subisce con rassegnazione, sperando di evitare le pesanti punizioni corporali. Il suo unico conforto è il ricordo di Nadia, la ragazza di cui è innamorato, e l’affetto che ritrova nei rari rientri a casa. Mentre il vero obiettivo della scuola emerge in modo sempre più chiaro, per il giovane studente si avvicina il giorno in cui un destino di morte sembra ineluttabile.
La drammaticità della storia accompagna il lettore in un duplice percorso, emotivo e istruttivo. Da un lato i sentimenti di Irfan, un adolescente che vive in un clima di paura e di violenza, affiorano in modo malinconico, a tratti poetico. Dall’altro viene descritta in modo dettagliato la formazione dei giovani kamikaze all’interno delle madrasse, con tutte le aberrazioni di un fanatismo religioso che motiva e sostiene la necessità del martirio in nome di Allah. Un romanzo duro, dove il coraggio del protagonista disegna la possibilità di una scelta diversa.
“Non voglio morire, pensavo, non voglio. Volevo tornare dal nonno, per chiedergli se Allah voleva davvero che facessi quello che stavo per fare, volevo tornare da Jamila e Ahmed, e volevo camminare nell’orto senza scarpe e mangiare i biscotti. E volevo rivedere Nadia.”.
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